Oggi sono salito con Peppe e Salvo su Monte Cuccio, che con i suoi 1052 metri sovrasta la città di Palermo. Il percorso che abbiamo fatto ci ha offerto dei contrasti fortissimi tra la città in basso e la montagna in alto. Non si è trattato soltanto di un’esperienza fatta di panorami del tutto diversi, come spesso accade, ma anche di suoni e odori. Il coinvolgimento di tutti e tre i sensi mi è rimasto impresso a lungo dopo l’escursione.
Di solito per salire a Monte Cuccio si prende la strada fino alla frazione di San Martino delle Scale, nel comune di Monreale. Ma non potendo uscire dal territorio comunale a causa delle restrizioni anti-COVID, noi siamo partiti dal quartiere di Baida, che si trova immediatamente sotto il monte, a est. Come accade spesso, la soglia che abbiamo valicato per passare dalla città alla montagna è stato un accesso al demanio pubblico nei pressi di una piccola struttura del Corpo Forestale. Dopo esserci lasciati la casetta alle spalle, abbiamo cominciato a salire sul monte. Il piccolo sentiero su cui camminavamo attraversa i resti di una pineta. Tutto intorno c’erano evidenti segni di un incendio: tronchi carbonizzati, alcuni ancora in piedi, altri abbattuti dal vento. Salendo, il bosco è diventato più fitto e verde, apparentemente risparmiato dalle fiamme. Il pendio in quel punto era abbastanza notevole e ho dovuto impegnare sia le gambe sia i polmoni.
In alto, voltandomi verso nord, vedevo il quartiere di Borgo Nuovo con i suoi enormi condomini a schiera. La posizione del quartiere testimonia davvero bene l’espansione della città dal centro verso la campagna avvenuta nel dopoguerra. Borgo Nuovo fu costruito in un punto oltre il quale non si poteva andare, a ridosso dei Monti di Billiemi, che chiudono la piana di Palermo a ovest. L’ennesimo esempio di come quasi ogni spazio disponibile fu occupato dall’avanzare delle comodità moderne.
Alla fine della ripida salita giungemmo all’imbocco di una piccola valle chiusa a sud da Monte Cuccio e a nord da una bassa cresta rocciosa che si estende per circa un chilometro in direzione est-ovest, al cui termine si erge una punta un po’ più alta delle altre, detta Pizzo Vuturo. Appena entrati nella valle mi resi conto che il ronzio meccanico della città, che ci aveva accompagnato per tutto il tempo, era improvvisamente scomparso. C’era silenzio. L’altezza del luogo e i costoni rocciosi impedivano al suono di raggiungerci.
Lungo la valle trovammo tracce di un mondo scomparso. Una vasca da bagno che anziché fungere da abbeveratoio era piena di terra. Vari tubi di plastica abbandonati. In basso lungo il pendio, la carcassa arrugginita di una macchina, ormai quasi completamente ricoperta di rovi. Chissà da quanto tempo era lì e da quanto tempo era morto il suo proprietario. Vedendo questi oggetti mi resi conto di come andare in questi luoghi comporta spesso fare un viaggio indietro nel tempo, quando il mondo era rurale e la pastorizia un lavoro quotidiano.
Ma non si tratta di un mondo del tutto scomparso. Nella valle trovammo i segni della pastorizia che ancora si pratica in zona. Nei pressi di una grande albero di fichi, qualcuno aveva infilato un tubo di plastica nel fianco del monte, da cui scaturiva dell’acqua che cadeva dentro un recipiente di plastica. Tutt’intorno, il terreno era bagnato e il fango coperto di tracce di mucca. Mi domandai se quell’abbeveratoio improvvisato funzionasse anche d’estate. Il fico selvatico era bellissimo. I rami fitti e bassi, le foglie larghe e carnose, di un verde scuro. Ed eccole le mucche, lì a poca distanza. Nere. Ferme a guardarci per capire se eravamo arrivati lì per loro.
Alla fine della valle trovammo un rudere. Una semplice struttura quadrata, in pietra, ormai del tutto diroccata. Ci fermammo a pranzare, godendo di un bel sole autunnale. Di fronte a noi, Monte Cuccio appariva imponente. Ai piedi del monte, sul lato ovest—”dietro” il Cuccio, guardando da Palermo—si trova il Piano della Montagna. È una zona pianeggiante che nella stagione umida è ricoperta d’erba e risulta molto accogliente. Una parte è occupata da una pineta, che contribuisce molto all’aspetto montano del paesaggio. Finito il nostro pranzo, attraversammo il piano a est per raggiungere la strada sterrata che porta in cima a Monte Cuccio. A un tratto, tutta la zona cominciò a riecheggiare del rumore di una motocicletta, basso e martellante. Ci voltammo a cercarla, e dopo poco vedemmo spuntare due mezzi da enduro che attraversavano il piano verso ovest.
La strada che dal piano della Montagna sale sul fianco di Monte Cuccio è stata scavata nel fianco del monte con mezzi meccanici. In cima sono presenti delle vecchie strutture che devono essere raggiungibili anche con mezzi a motore. Ma dopo decenni di intemperie ed erosione, il fondo roccioso della strada si è sgretolato tutto. Più che una strada, ormai si tratta di un letto di nuda roccia pieno di massi sconnessi, sui quali persino camminare è difficile. Trovai così noioso quel tratto che presi a camminare sul bordo leggermente rialzato della strada, dove il terreno resta compatto grazie a un minimo di vegetazione.
Ero già stato in cima al Monte Cuccio e anche questa volta provai le stesse sensazioni contrastanti delle altre volte. Il luogo è del tutto rovinato dalla presenza di una serie di casupole apparentemente di proprietà dell’Enel. A giudicare dalla stato pietoso in cui si trovano—le porte vandalizzate, le mura e i tetti crollanti—quasi tutte saranno ormai superflue, fatta eccezione per qualche antenna. Perché non toglierle e ripristinare la cima, per quando possibile, a uno stato “naturale”? In questo momento il luogo non è molto diverso da una discarica di materiali elettrici.
Il panorama a est sulla città di Palermo è sicuramente uno dei più spettacolari. La cima è a mille metri d’altezza e il monte si trova quasi perfettamente a metà della Conca d’Oro. Ma guardando l’agglomerato urbano, anche quella volta non potei fare a meno di pensare a tutti i danni ambientali che provoca la città e a tutto ciò che si è distrutto e perso irrimediabilmente per raggiungere la città di oggi. Preferisco molto di più il paesaggio che si ammira voltando le spalle a Palermo, quello verso ovest del Piano della Montagna.
Quando cominciammo a scendere, il sole stava già tramontando. Ripercorrendo la piccola valle in senso opposto, potevamo guardare la città di fronte a noi e le luci della sera che si accendevano. Attraversammo la pineta al buio, facendoci strada con le torce frontali. Procedevamo in gran parte fuori sentieri, in mezzo a pietre, radici e accumuli di aghi di pino. Nonostante le torce, inciampare era quasi inevitabile. A un certo punto, mi resi conto che eravamo di nuovo accompagnati dal ronzio meccanico della città. Il rumore-tremore di sottofondo emesso dalla società urbana industriale.
Poi percepii un cambiamento nella qualità dell’aria. Sul Piano della Montagna al tramonto avevamo lasciato un leggero ma piacevole freddo. Gli odori erano quelli della terra umida, degli aghi di pino bagnati e dello sterco di vacca. Scendendo di quota, l’aria divenne tiepida e pesante. Poi d’improvviso fummo investiti da un fetore inconfondibile e allo stesso tempo indecifrabile. Per me si trattava della puzza dello smog, quell’odore acre e soffocante che resta attaccato ai vestiti dopo essere stati in giro per la città. Salvo invece sosteneva che fosse il tanfo dell’immondizia, dei cassonetti stracolmi e delle discariche abusive. È possibile che avesse ragione lui, perché la discarica cittadina si trova a poca distanza in linea d’aria dal punto in cui ci trovavamo. L’enorme struttura è stata scavata in una località dei Monti di Billiemi chiamata Bellolampo, nome che con una triste ironia è divenuto sinonimo di bruttura.
Al di là della sua origine precisa, quello che più mi colpì del fetore ritornando alla macchina fu l’idea che avessimo oltrepassato una soglia che divideva due mondi a due altitudini diverse, in alto una “natura” sicuramente non incontaminata ma almeno vivibile e rigenerante, in basso la città, oppressiva e nociva.
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