Dopo una lunga pausa durata tutto ottobre, siamo tornati con Peppe sulle Madonie. Stando al calendario, l’autunno è già inoltrato, ma le temperature dicono tutt’altro. Durante le settimane scorse, mentre ero fuori Palermo, vedevo i servizi in TV sulla gente che andava ancora a mare. Poi aprivo i social e trovavo tutta una serie di escursioni pubblicizzate con la stessa parola: foliage. Tipo prodotto. Vendere la montagna e la natura in base a un’etichetta. Poi parliamo di turismo esperienziale… Più che altro cerchiamo la marca. In autunno, marca Foliage.
A quanto pare quest’anno il foliage non è stato all’altezza. Forse i consumatori della montagna faranno un reclamo per essere rimborsati dalla natura. Sulla pagina Facebook Piano Battaglia (Madonie), che è sempre un ottimo termometro del popolo che frequenta le montagne nostrane, sono passati commenti tipo “i colori di un autunno un po’ sbiadito”. Sulla pagina si è parlato dell’assenza delle nebbie autunnali (leggi: freddo) come causa della mancata prestanza del foliage. Nel libro dei commenti del rifugio di Valle della Giumenta, abbiamo trovato il messaggio di un gruppo di escursionisti che erano venuti “alla ricerca (vana) del foliage”. Insomma, grande delusione.
Salendo in macchina da Collesano verso Piano Battaglia, ero molto curioso di vedere la situazione. All’altezza di Piano Zucchi mi è sembrato che tutto fosse ancora quasi verde. Forse eravamo troppo in basso, o forse le temperature pazze di questo non-autunno avevano ritardato il fenomeno. D’altronde il termometro della macchina segnava 18 gradi. Assurdo, se consideriamo che eravamo a 1100 metri d’altezza ed era il 10 novembre. Forse sarebbe più importante parlare del troppo caldo che del poco rosso delle foglie.
Salendo verso Portella Colla, la situazione è cambiata. Sicuramente si vedevano colori più autunnali, sia sul massiccio del Carbonara che sulla Mufara e su Pizzo Antenna Piccola. Camminando verso Piano Cervi, mi sono guardato attorno a lungo, ma la verità è che senza essere degli esperti era difficile, se non impossibile, giudicare se le chiome dei faggi fossero meno colorate rispetto agli autunni passati.
Ma cosa importa poi? Andare in montagna per vedere solo questa cosa equivale ad andare da qualche parte perché c’è la celebrità di turno. La stessa cosa succede con la neve. Nonostante tutto, abbiamo visto degli scorci bellissimi.
Camminando lungo il Sentiero Italia, mi sono accorto di come la pioggia dei giorni precedenti avesse scavato un solco nel letto di foglie cadute che coprivano il terreno. A tratti era davvero profondo e netto, e ho provato a immaginare il suono che avrà fatto l’acqua mentre ci scorreva dentro. Un suono allegro e rilassante.
Poi siamo passati accanto ai grandi abeti che si trovano a monte di Valle della Giumenta. Questo inverno, alcuni di questi alberi hanno perso diversi grossi rami, probabilmente sotto il peso della quantità di neve caduta, che li avrà resi fragili durante le bufere di vento. Vederli lì a terra in una massa confusa è stato un po’ triste, ma alla fine è uno dei pochi fenomeni naturali che rimangono in montagna.
Siamo arrivati a Cozzo Morto al tramonto. Sulla destra, un gruppo numeroso di daini stava brucando tranquillamente l’erba. Dopo qualche istante, si sono accorti della nostra presenza. Come accade quasi sempre in questi casi, all’inizio sono rimasti immobili a guardarci, come a considerare la situazione. Poi all’improvviso si sono messi a correre per nascondersi tra gli alberi. Attorno a noi c’era un silenzio assoluto, e il rumore degli zoccoli che colpivano il terreno ci è giunto netto. È durato solo qualche secondo, poi si è perso nel nulla.
Per la prima volta mi sono reso conto del fatto che sentire questi animali è molto più suggestivo che vederli. È un’esperienza molto più profonda e intima, forse perché non passa per quel canale ormai del tutto saturo che è la vista nella società dei telefonini.
Siamo rimasti ad ammirare il panorama. Dopo un po’, all’improvviso, il cielo a occidente ha cominciato a tingersi prima di un arancione tenue e poi, velocemente, di un rosa intenso, quasi fucsia. Nella luce del tramonto, la sequenza di monti lungo la costa è diventata più visibile. Ne vedevamo solo una piccola parte, grazie a una sella abbastanza bassa a sinistra del Monte Castellaro. I profili dei monti avevano colori via via più chiari, dal grigio scuro dei rilievi a noi più vicini, già quasi al buio, fino al lilla chiaro dell’orizzonte più lontano e indistinto. Le linee delicate sembravano i pezzi di un collage.
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L’indomani siamo saliti in cima al Monte Castellaro. Da Cozzo Morto abbiamo proseguito lungo il Sentiero Italia, fino ad arrivare all’altezza di una valle chiamata Mandrie Nipitalva. A quel punto, anziché proseguire lungo il sentiero che porta a Case di Mastro Peppino facendo diversi tornanti, Peppe ha suggerito di scendere fuori pista lungo il fianco della montagna, tirando dritto per le falde del Castellaro.
Così siamo cominciati a scendere. Dopo un po’ abbiamo virato verso sinistra, perché la linea diretta diventava troppo rocciosa, e siamo entrati in una sorta di impluvio dove crescono numerosi faggi, sicuramente approfittando dell’acqua che si raccoglie in quel punto. Tra gli alberi abbiamo trovato i resti di un grosso daino maschio. Sembrava si fosse semplicemente seduto prima di morire.
Abbiamo trovato anche un vecchio cartello di lavori in corso, finito lì chissà come.
Seguendo la pendenza dell’impluvio, siamo usciti da sotto i faggi e ci siamo trovati nella valle. Alla nostra destra c’era l’imbocco del Vallone Secco, una ripida gola che scende verso Contrada Volpignano. Le nuvole basse della giornata gli davano un aspetto quasi misterioso.
Il terreno a Mandrie Nipitalva non è quasi mai in piano, ma è composto da una serie di piccole collinette con relativi avvallamenti. Zone di prato e zone di roccia si avvicendano al suolo. Noi abbiamo seguito vari incanalamenti che ci hanno portato alla base di Monte Castellaro.
Lungo questo percorso, abbiamo trovato ben due cinghiali morti nello spazio di un centinaio di metri. Il primo era a terra, mentre l’altro si trovava dentro una grossa pozza d’acqua piovana. Inizialmente abbiamo pensato che in qualche modo fosse annegato, ma in realtà è possibile che fosse morto a terra durante la stagione secca, e che poi la pozza ingrossandosi con le piogge lo abbia inglobato.
Lentamente, abbiamo cominciato a salire sul monte. Quasi subito ci siamo divisi. Peppe è salito per direttissima, mentre io ho fatto diversi zig-zag che mi hanno portato nei pressi di un vecchio tronco di albero ormai distrutto dal tempo. Nonostante ne rimanesse solo metà in piedi, era ovvio che da vivo era stato davvero imponente. In quella zona c’era solo lui.
Dopo avere fotografato il tronco, ho continuato a salire. Lentamente, con passo metodico, ho fatto tanti altri zig-zag, quasi stessi danzando sul fianco della montagna. Alla fine sono arrivato in cima, dove in realtà si trova uno spazio molto ampio, con prati verdi misti a gruppi di faggi. Peppe non si vedeva da nessuna parte. C’era solo il silenzio e il suono del mio ansimare. Non mi capita praticamente mai di salire su una montagna da solo. È stata una sensazione molto strana, ma bella.
Quando Peppe è rispuntato, ci siamo seduti sulle rocce a pranzare. Di fronte a noi c’era uno spettacolo di nuvole che salivano a sinistra dal Vallone Secco e a destra dalla pianura. Soprattutto a destra, i grandi ammassi di vapore acqueo si scontravano con i rilievi di cui Monte Castellaro è solo una parte, creando degli effetti stranissimi. A tratti sembrava che la terra fumasse, come nelle zone vulcaniche, ma erano solo nuvole basse che restavano impigliate al terreno. Il sole velato sembrava un disco incandescente.
Purtroppo, anche su Monte Castellaro sono presenti i segni dell’Antropocene. In mezzo alle rocce abbiamo trovato una vecchia lattina, abbandonata chissà da chi, chissà quanto tempo fa.
Antropocene a parte, mentre ero seduto a guardare il panorama, ho pensato che nonostante fossimo venuti sempre nello stesso posto (“Piano Cervi”), eravamo riusciti a fare un’esperienza del tutto diversa semplicemente grazie al fatto di avere lasciato il solito sentiero ed esserci spinti su una cima che fino ad allora avevamo solo osservato. Con buona pace dei fissati del foliage.
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