Alcuni giorni fa ho fatto un’escursione nel territorio comunale di Palermo (causa restrizioni anti-COVID) durante la quale ho potuto constatare per l’ennesima volta come lo sviluppo urbano del secondo dopoguerra ci abbia separati dalla natura. Si è trattato di un processo in cui il territorio è stato letteralmente fatto a pezzetti, rendendo spesso impossibile il passaggio agli esseri umani (a piedi) e a tantissime altre specie viventi. I danni che ne sono derivati sono parte integrante dell’epoca in cui viviamo, l’Antropocene.
Con Salvo e Peppe siamo andati sui monti a ovest di Palermo, nella zona di Loghiceddu e Piano Mollica. In macchina abbiamo percorso una stretta strada che s’inerpica su un costone in mezzo a villette. Così siamo arrivati nel punto dove inizia il sentiero per la Riserva di Grotta Conza. Lì abbiamo posteggiato e ci siamo incamminati verso la grotta.
La parte iniziale di questo sentiero costeggia dall’alto la strada, ci si cammina proprio sopra, cosa che ho trovato stranissima. Inoltre, è possibile vedere un lungo tratto di Viale Regione Siciliana che si snoda verso est, con tutti i palazzi e le strutture commerciali che la circondano. È una vista impressionate.
La Riserva di Grotta Conza era chiusa. All’interno della recinzione c’era una persona del CAI Sicilia, l’ente gestore, che ci ha spiegato che non si poteva accedere a causa delle norme anti-COVID.
Abbiamo quindi proseguito, imboccando la grande strada sterrata della forestale che sale verso Pizzo Manolfo, il monte più alto della zona. La strada attraversa una pineta, frutto di opere di rimboschimento del dopoguerra. Tutta la zona è artificiale, e basta avere un minimo di dimestichezza con i boschi naturali per rendersene conto. Ciò nonostante, si tratta pur sempre di uno spazio verde, “naturale” rispetto alle distese di cemento e asfalto della città. Siamo passati accanto a numerose strutture della forestale, spesso chiuse dietro cancelli. Lungo il versante nord, che dà sul mare, c’erano anche delle case private, i cui cani da guardia si sono messi ad abbaiare al nostro passaggio.
Per due volte abbiamo incontrato delle macchine. Utilitarie guidate da privati, forse gente che possiede mucche da pascolo in zona, autorizzata quindi a entrare. Vedere una macchina passare in quell’ambiente è stato stranissimo. Mi ha dato una forte sensazione di assurdo, di fuori posto.
Con Peppe abbiamo camminato lentamente lungo i tornanti della sterrata, mentre Salvo ha deciso di salire tagliando fra gli alberi, alla ricerca di asparagi selvatici. Dopo un po’ ci siamo ricongiunti in un punto noto informalmente come “belvedere”, una diramazione della sterrata che gira attorno al monte in alto. Da lì è possibile osservare tutto il golfo di Sferracavallo, una borgata marinara a ridosso di Palermo. La sterrata prosegue girando a gomito verso ovest, oltrepassando Portella Nino. Sulla punta del gomito si trova una piccola cresta rocciosa, la cui estremità sovrasta una gola molto stretta e profonda, il Vallone della Cala. Fino a quel punto l’escursione era stata un po’ noiosa, ma adesso ne valeva la pena. Il punto è molto bello. A sporgersi vengono le vertigini.
Lungo il dirupo della gola abbiamo visto quattro carcasse di auto, evidentemente gettate dalla sterrata. Sembra assurdo che qualcuno possa averlo fatto, ma è così. In realtà capita abbastanza spesso di trovare carcasse di auto abbandonate nei boschi.
Proseguendo, abbiamo iniziato a sentire il rumore della cava di pietra che si trova sul versante ovest di Pizzo Manolfo. Un rumore di macchinari pesanti e di grandi quantità di roccia smossa con violenza. Salvo ha detto che per lungo tempo il WWF ha cercato di farla chiudere. Superato l’inizio del vallone, abbiamo tagliato nella pineta per passare nell’altro versante. Anche da quel punto la vista della gola era impressionante. Adagiati sul fondo ci sono alcuni massi ciclopici che devono essere caduti dalle pareti.
Ci siamo fermati per pranzare al sole, vicino al bordo del canyon. A poche decine di metri da noi alcune mucche brucavano tranquillamente l’erba. Questa zona sembrava molto più naturale della pineta, anche se non saprei spiegare il perché. Forse erano gli animali, che paradossalmente rivelano la presenza umana e il lavoro agricolo, così come i muretti a secco. Sulle cartine il luogo è noto come Piano Mollica.
Finito di mangiare, abbiamo continuato lungo un piccolo sentiero che scende dritto verso nord, in direzione del golfo tra Punta Matese e Punta della Catena. Dopo non molto abbiamo lasciato il sentiero, divenuto ormai solo una traccia tra i sassi, e abbiamo iniziato a scendere lungo il costone. Davanti a noi c’era l’autostrada Palermo – Mazara del Vallo. Il rumore delle auto lanciate a tutta velocità era perfettamente udibile. Un misto di eco e ronzio. Il pendio su cui ci trovavamo è stretto a est dal Vallone della Cala e a ovest dalla cresta di Pizzo Mollica. Si tratta quasi di un vicolo cieco, tagliato a nord dall’autostrada. Forse per questo motivo il luogo mi è sembrato vuoto, inutile, come un luogo di risulta. Una zona rimasta tagliata fuori da altre cose, senza senso. In realtà non è esattamente così, se non altro perché si tratta di un’area di pascolo. Ma in termini di fruizione della natura mi è sembrato perso.
A un certo punto, sulla destra è cominciata la recinzione della vecchia base militare NATO, ormai arrugginita e divelta per diversi tratti. Appresso c’erano dei vecchi pali della luce, anch’essi ormai molto deteriorati. La base NATO fu costruita negli ’50 del secolo scorso, in piena Guerra Fredda, ed è stata dismessa nel 2000. Per raggiungere il nostro sentiero di ritorno siamo dovuti passare dentro il suo perimetro. Il luogo è a dir poco surreale. È evidente come le autorità abbiano deciso di fortificare l’ingresso del Vallone della Cala, modificandone la conformazione col cemento armato. Per mezzo secolo la zona è stata inavvicinabile, e nessuno avrebbe potuto seguire il percorso ad anello che stavamo facendo noi.
Dopo essere usciti dalla base, abbiamo invertito la nostra direzione di 180° e imboccato un sentiero che sale lungo il versante est di una cresta detta la Montagnola, verso la città. Qui il rumore dell’autostrada era fortissimo. Il sentiero in sé non è brutto, ma il rumore ha reso percorrere quel tratto deprimente. Ancora più tremendo è stato rendersi che quel sentiero avrà quel problema tutti i giorni, senza scampo. Realizzare che un luogo è stato rovinato per sempre non è cosa da poco. L’unica speranza sono forse le auto elettriche.
Ormai era tardi e camminavamo all’ombra. Il sole era calato dietro la cresta del monte. Cominciavo a sentire un po’ di freddo e umidità. Mentre salivo, ho guardato davanti a me l’abitato di Luoghicelli, un misto di strutture agricole e palazzine private. Mi è parso un territorio indefinibile, a metà tra il rurale e l’urbano, emblema di uno sviluppo totalmente incontrollato, autoreferenziale. Alla fine il sentiero si è ricongiunto alla sterrata del belvedere. Da lì siamo tornati a Grotta Conza e alla macchina.
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