In un articolo pubblicato qualche mese fa su Gogna Blog si parla del valore pedagogico delle esperienze fatte in natura, specialmente in montagna. Ne riporto alcuni estratti (in parte riadattati) che mi sono sembrati particolarmente interessanti.
In una fase iniziale, assolutamente pionieristica e sorretta da suggestioni filosofiche (Platone, Aristotele) e letterarie (Thoreau, London, Leopold fra gli altri), l’approccio educativo sembra identificarsi con un motto che recita: mountains speak for themselves (le montagne parlano da sole).
Grandi esperienze per durata ed intensità sono affiancate da momenti non strutturati di riflessione individuale o in gruppo, senza che ciò comporti particolari attenzioni pedagogiche. […] Tutto si edifica a partire da una fiducia incondizionata nella capacità evocativa e formativa della natura estrema o, per meglio dire, della wilderness.
Attorno al cambio di millennio, voci dissonanti iniziano ad accumularsi. Se l’unica caratteristica pedagogicamente rilevante sembrava essere l’ostilità (wilderness), ora si recupera una maggior attenzione alla capacità ristorativa e accogliente del contesto naturale e alla possibilità di esperire in natura un senso dei luoghi.
Allargare la visione circa il ruolo dell’ambiente apre alla progettazione di esperienze in contesti non estremi ma vicini ai luoghi di vita e di istruzione avvicinandosi all’ambito di una pedagogia del luogo e ai temi della sostenibilità.
In questo modello emergente, un ruolo trasformativo di primo piamo è attribuito a singoli eventi d’apprendimento, momenti serendipici non previsti ma promossi indirettamente e riconosciuti come i fattori maggiormente significativi dell’esperienza di apprendimento.
L’articolo si concentra in parte sull’idea di “avventura.”
Oscillante e contraddittoria, l’avventura si colloca esattamente sulla soglia, in uno spazio liminare di continuo passaggio fra dimensioni diverse e opposte, in primis fra il gioco e la serietà. La dimensione ludica o disinteressata del gioco apre a una sospensione del quotidiano, delle sue regole e delle abitudini che lo guidano.
Tuttavia, l’avventura non è gioco in senso stretto perché se lo fosse perderebbe del tutto d’interesse. [Il filosofo francese Vladimir Jankélévitch scrive:] «Provate ad eliminare uno dei due contrari, gioco e serietà, e l’avventura cessa di essere avventurosa: eliminando l’elemento ludico, l’avventura diventa una tragedia; se invece è la serietà a venire meno, l’avventura si trasforma in una partita a carte, un ridicolo passatempo e un’avventura da strapazzo».
Anche le considerazioni sull’idea di “rischio” sono interessanti—un tema, questo, sempre molto attuale:
Correre il rischio, ovvero esporsi consapevolmente a ciò che potrebbe contrastare le nostre aspettative. […] Valorizzare la dimensione del rischio non significa per forza esporsi a rischi fisici; considerato in un senso allargato, la dimensione rischiosa dell’esperienza include molteplici declinazioni, fisica e emotiva, relazionale e cognitiva.
A seconda dei contesti, della tipologia di discente e degli obiettivi d’apprendimento si potrà considerare quali rischi conviene correre e quali no, mediando fra il bisogno di sicurezza e quello di offrire un adeguato livello di rischio benefico e di incertezza generativa di apprendimento.
Infine, le riflessioni sull’importanza del racconto non possono che essere ben accolte su un blog come questo:
Raccontare l’avventura, ovvero costruire il senso a posteriori. Se l’avventura tocca il dominio dell’indicibile, ciò non significa che essa non possa venire alla parola. La riflessione e la narrazione appariranno, allora, come i dispositivi formativi privilegiati per procedere in primis a una descrizione e a una documentazione dell’esperienza e, quindi, a una sua ri-figurazione.
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