Dopo una notte di vento e pioggia, stamattina il tempo è andato lentamente migliorando. Così all’ora di pranzo ho proposto a Peppe e Salvo di andarci a fare un giro a Capo Gallo. Partita senza pretese, alla fine si è rivelata una bella esperienza di natura anche a poca distanza dalla città.
La Riserva Naturale Orientata di Capo Gallo è una piccola zona protetta lungo la costa nord-occidentale di Palermo. La riserva è composta da una stretta striscia di terra, con il mare da un lato e il ripido costone di Monte Gallo dall’altro. Noi ci siamo diretti verso l’accesso orientale, che si trova vicino la borgata marinara di Mondello.
Purtroppo, quando siamo arrivati in zona abbiamo trovato molte strade allagate, a causa delle forti piogge delle ultime ore. Questo è un problema ricorrente per Mondello, il cui territorio era originariamente una palude. Dopo avere cercato alcune strade alternative, alla fine siamo tornati indietro, non volendo rimanere bloccati con la macchina. Allora ci siamo diretti verso l’altra metà della riserva, quella che dà sulla borgata di Sferracavallo.
Durante il tragitto si è rimesso a piovere. Abbiamo posteggiato nello spiazzo di Punta di Barcarello e siamo scesi dalla macchina con indosso le nostre giacche impermeabili. Il ticchettio della pioggia sul cappuccio mi ha dato una sensazione di familiarità e accoglienza. Per entrare nella riserva siamo dovuti passare da un porticciolo privato, con i suoi capannoni pieni di barche messe al sicuro dall’inverno. Poi siamo passati accanto alle ville a più piani costruite sulle falde del monte. Come in tanti altri posti, anche qui era evidente l’assedio che l’urbanizzazione del ventesimo secolo ha portato alla natura. La riserva è rinchiusa dal cemento, circondata da strutture artificiali, inquinanti, che bisogna oltrepassare per poterla raggiungere.
Sulla sinistra, il mare agitato s’infrangeva sugli scogli, scuro e bianco allo stesso tempo. Gli spruzzi si alzavano nell’aria per diversi metri. L’odore di mare e salsedine era dappertutto. L’acqua salata sollevata dal vento si mescolava con quella dolce che cadeva dal cielo. La lunga costa rocciosa aveva un aspetto completamente diverso da quello che ha quando è asciutta: scura, livida, luccicante. L’assenza di persone e il meteo le davano un aspetto più selvaggio, se è possibile usare questo aggettivo per il luogo.
Una volta superato il cancello della riserva, Salvo ha suggerito di entrare nella piccola pineta che c’è lungo il costone, per trovare riparo dalla pioggia. Subito abbiamo cominciato a camminare su una pendenza notevole. La pineta – un rimboschimento di anni passati – è mal tenuta, piena di alberi caduti, spesso bruciati dagli incendi estivi. Dopo un breve percorso a ostacoli, abbiamo seguito una traccia che ci ha portati fuori dal boschetto, a incrociare un sentiero vero e proprio. Anziché andare verso l’estremità della riserva, ci siamo diretti in direzione opposta, in alto, verso un punto molto panoramico alla base della parete. Lungo questo tratto ci sono piccoli gruppi di alberi tipici della flora mediterranea – frassini, carrubi e lecci. Lentamente ha smesso di piovere. Poi è uscito il sole.
A un certo punto ci siamo accorti che alle nostre spalle era comparso un grande arcobaleno. Il fascio di colori sembrava emergere dal mare, per poi scomparire tra le nuvole che ancora dominavano il cielo. Sulla linea d’orizzonte s’intravedeva l’isola di Ustica. Alcune navi mercantili galleggiavano sull’acqua come piccole barrette colorate.
Dopo circa mezz’ora, siamo arrivati alla fine del sentiero. Di fronte a noi c’era la grande parete di roccia del monte. Con attenzione siamo saliti su alcune pietre, sicuramente cadute dall’alto in epoche passate, cercando di non scivolare sulla superficie bagnata. Una di queste pietre ha una dimensione e una forma tali da creare una sorta di terrazza. Ci siamo seduti in quel punto. Sotto di noi la costa era visibile per chilometri, soprattutto a ovest, dove si scorgeva il profilo montuoso della Riserva dello Zingaro, in provincia di Trapani. Peppe aveva portato della crostata di mele, che abbiamo consumato insieme a del tè caldo, continuando a identificare vari punti del territorio.
Finita la merenda e l’osservazione, ci siamo rimessi in cammino nella direzione da cui eravamo venuti. Data la vicinanza al monte, ci trovavamo nel fascio d’ombra proiettato dalla parete. Guardando davanti a noi potevamo vedere il confine con la luce che si estendeva lungo tutta la riserva. Il contrasto di colori era splendido.
Lungo il sentiero ci siamo fermati a guardare alcuni segni sulla parete, forse l’altezza a cui arrivava il mare centinaia di migliaia di anni fa, quando il clima della Terra era molto più caldo. C’era come una linea che attraversava orizzontalmente la parete. Difficile da immaginare.
Arrivati nella zona dell’approdo Cassina, abbiamo deciso di proseguire tra le rocce, verso nord-est, dove sono presenti i resti di un antico insediamento umano. Così vicino al mare il vento era sostenuto, ma non troppo freddo. Le grandi nuvole che attraversavano il cielo facevano apparire e scomparire il sole in continuazione. Seguendo le tracce di sentiero tra pietre franate, muretti a secco e arbusti vari, siamo giunti al megalite noto come Pietra Tara.
A quel punto ho deciso di fermarmi, mentre Salvo e Peppe hanno proseguito. Ho cercato una pietra abbastanza piatta dove sedermi e mi sono messo a bere il tè, osservando il moto delle onde. In quel punto la costa è alta e frastagliata. Il mare si spingeva con forza contro le rocce, a causa del vento forte. Già a distanza dalla costa lo vedevo gonfiarsi, come una grande massa scura che respirava. L’onda avanzava prima lentamente, poi con velocità. Allo stesso tempo il colore cambiava, da blu profondo ad azzurro, e poi bianco di schiuma. Un’onda dopo l’altra, un respiro dopo l’altro. Sembrava un ritmo che non si sarebbe mai interrotto. Col passare dei minuti ho avuto la sensazione di stare guardando la Terra viva. La Terra come insieme di fenomeni naturali che ci condiziona e che non possiamo controllare. Provare questa sensazione praticamente in città mi ha lasciato stupito, e grato. Non si tratta di un’esperienza automatica. Bisogna sforzarsi di uscire, di abbandonare la propria zona di comfort. Non cercare sempre e solo il bel tempo. Quel luogo è naturale anche con il sole e il cielo azzurro, certo; ma in quelle condizioni non avrei avuto la possibilità di rendermi conto della presenza della Terra come un essere non addomesticato. Così come non si possono fare queste esperienze quando ci sono molte persone intorno. Per concentrarsi sulla natura bisogna allontanarsi dall’umano nella sua forma urbana di massa.
Alla fine, Salvo e Peppe sono tornati e ci siamo rimessi in cammino. La sterrata principale della riserva era piena di pozzanghere che riflettevano il cielo al tramonto. Quando siamo arrivati alla macchina era ormai quasi buio e la linea di costa era delineata dalle piccole luci bianche, rosse e gialle di case e auto.
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